Lezioni di Pianto

Premio letterario Carrera 2015
Premio speciale Milano Donna 2017

Prefazione:

Lezioni di pianto di Ivana Brigliadori già dal titolo indica una delle parole rivelatrici della silloge e, con essa, uno status emozionale ben preciso: il pianto e le sue scaturigini. Il percorso, difatti, si inserisce in una riflessione complessiva sul dolore e sul disagio esistenziale. Tale caratteristica si ripercuote nella filosofia del quotidiano che imperversa nella silloge e che s’individua nel relativismo conoscitivo pirandelliano. Un primo accenno si ritrova nel testo incipitario Un uomo a spicchi, in cui la vita di tutti i giorni offre lo spunto sull’inconoscibilità. Esempio ulteriore è Fantasmi, in cui la percezione dell’interiorità conduce alla scissione di sé e ad una stregua ricerca dell’Io che, in questo caso, fatica a riconoscersi: «Poi si alzò e a tentoni andò in bagno / e con le mani sul lavandino guardò dentro lo specchio / se almeno là ci fosse qualcuno / ma anche là non c’era nessuno».

Il pianto, dunque, è presente come etica del dolore e come elezione che permette la riflessione. Il risultato è la contemplazione delle cose semplici, in un percorso che, come ricorda la Brigliadori in Faust, considera il reale più importante dell’impossibile. Tale visione, però, si riveste di un tessuto onirico che umanizza gli elementi. È il caso, ad esempio, delle stagioni che sono scansioni temporali, ma soprattutto condizioni dell’anima. I colloquialismi e le parole “comuni” che la poetessa usa nelle sue liriche non costituiscono semplicemente l’incursione della modernità, ma anche e soprattutto il viatico percettivo. Non bisogna considerare la poesia di Ivana Brigliadori come espressione autoreferenziale, esclusivamente rivolta all’Io, perché il mondo e la collettività vi penetrano all’interno, rilevando l’altra faccia del “pianto”.

In questo orizzonte si inseriscono i testi rivolti alla socialità, come la migrazione, di cui non si offre semplicemente un taglio descrittivo, ma l’immedesimazione sentimentale. Ciò comporta, come già notato, una interiorizzazione complessiva e consustanziale, com’è chiaro anche dalla lirica Auschwitz, che rappresenta il connubio tra dolore universale e dolore personale: «Come le ossa delle dita dei morti / quando si intrecciano per non tornare in vita / si sta aggrappati agli altri / per non piangere / e prima che sia finita». In questa dialettica, non si cede al rimpianto e allo sconforto.

La poesia diventa una espressione viva e vitale, un ossimoro proteso verso il futuro. Difatti ci troviamo davanti ad un’opera che ha come titolo Lezioni di pianto, ma che si conclude con un altrettanto sentimento basilare che è la speranza: «Possa tu non disperare / se ti si costringerà a startene in panchina / la sera della prima, / o di piangere troppo forte / per le montagne troppo alte / che devi scalare per crescere e migliorare. / E se un giorno sarai di fronte alla scelta / di poterti alzare / anche se troppo tardi, / io spero che danzerai anche da sola / davanti al mare».

Giuseppe Manitta